Quanta cattiveria nei social

Una piazza digitale che brucia.
Immagina di pubblicare una foto innocua: un tramonto, un piatto cucinato con cura, un pensiero leggero. Bastano pochi secondi e sotto compaiono i primi commenti velenosi: critiche sul tuo aspetto, accuse gratuite, sarcasmi che puzzano di rancore. Facebook, nato come luogo di incontro e condivisione, sembra essersi trasformato in una piazza dove il giudizio e la cattiveria non solo si tollerano, ma vengono amplificati.

Dal sogno al baratro

Quando Mark Zuckerberg lanciò il social nel 2004, l’idea era semplice: collegare studenti, creare reti, abbattere distanze. Vent’anni dopo, la realtà è ben diversa. Facebook è oggi sinonimo di polemica e odio digitale. I gruppi e i commenti sono diventati spesso teatri di violenza verbale, dove il confine tra critica e insulto si dissolve.

Un esempio recente arriva dall’Italia: il gruppo “Mia Moglie”, con oltre 32.000 iscritti, in cui venivano condivise foto intime di donne senza consenso, accompagnate da commenti degradanti. Chiuso solo dopo migliaia di segnalazioni e l’intervento della Polizia Postale, ha lasciato un segno profondo: dietro l’apparente “spazio per adulti” si nascondeva una comunità di voyeurismo tossico e abuso.

L’odio che si organizza

Non si tratta di episodi isolati. Attivisti ambientali e difensori dei diritti umani denunciano Facebook come la piattaforma più tossica per la loro sicurezza: oltre il 60% subisce molestie regolari, e il 75% percepisce un legame diretto tra insulti online e minacce nella vita reale. Una connessione inquietante tra tastiera e realtà.

Parallelamente, rapporti indipendenti segnalano un aumento costante di bullismo e contenuti violenti. Meta, con le sue recenti politiche di “moderazione alleggerita”, ha aperto la strada a una quantità stimata di centinaia di milioni di post nocivi in più ogni anno. Il paradosso: per combattere la censura si è legittimata la cattiveria.

Perché tanta cattiveria?

Le spiegazioni non sono univoche. Alcuni meccanismi chiave emergono:

Effetto disinibizione online: dietro lo schermo, le persone perdono freni e mostrano un volto più aggressivo, meno empatico.

Algoritmi dell’indignazione: per anni Facebook ha premiato i contenuti che suscitavano rabbia. Una reazione “furiosa” valeva più di un “like”. Anche se oggi il peso è stato ridotto, la logica dell’engagement ha già infettato la cultura della piattaforma.

Echo chambers: nei gruppi chiusi, opinioni estreme si rafforzano a vicenda. Non c’è spazio per il dubbio, solo per il rilancio del rancore.

Moderazione debole: meno controlli significano più libertà per chi diffonde odio, mentre chi subisce spesso resta invisibile.

Una questione culturale

Facebook è ancora il social con più iscritti al mondo, ma il suo ruolo sembra essersi spostato da “luogo di incontro” a “ring di giudizi”. È un riflesso della società? O la piattaforma ha contribuito a polarizzare, creando un ambiente dove la cattiveria è diventata norma quotidiana?

Paradossalmente, ciò che rende potente il social — la possibilità di dare voce a chiunque — è anche ciò che lo condanna a essere un campo minato. La libertà di parola si confonde con la libertà di ferire.

E ora?

Restano domande aperte: possiamo ancora immaginare un Facebook diverso, uno spazio di dialogo e comunità? O la sua identità è ormai segnata dall’odio che ospita?

Forse la sfida non è solo tecnica, ma culturale: imparare a riconoscere che dietro ogni commento c’è una persona, e che la connessione digitale non può diventare scudo per la crudeltà.

La cattiveria nei social non è inevitabile. È una scelta collettiva. Ma per cambiare rotta serve il coraggio di dirsi, una volta per tutte, che non basta mettere like: bisogna anche mettere rispetto.

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